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Callimaco

Inni a Zeus

Edizione Acrobat

a cura di

Patrizio Sanasi

(patsa@tin.it).A ZEUS

Cos'altro più che il dio si può cantare,

cosa di meglio nelle libagioni

in onore di Zeus, che il dio in persona,

eccelso sempre, sempre dominante,

che disperse i Pelàgoni e dispensa

la giustizia ai Celesti? E con che nome

lo canteremo poi, Dittèo o Licèo?

L'animo resta in grande indecisione,

poiché non è sicura la sua origine.

Zeus, tra i monti dell'Ida, per alcuni,

Zeus, per altri in Arcadia, tu nascesti.

Chi disse il falso, padre? "Mentitori

sono sempre i Cretesi." Anche una tomba

i Cretesi ti fecero, signore,

ma non moristi tu: vivi in eterno.

Nella Parrasia Rea ti partorì,

là dove il monte è più coperto intorno

da macchie di cespugli. Da quel tempo

il luogo è sacro né animale o donna

bisognosa di Ilitia vi ha contatto,

ma dagli Apidanèi l'antico letto

per il parto di Rea viene chiamato.

Quando dal vasto grembo ti depose,

d'una corrente d'acqua andava in cerca

sul momento la madre, per lavarsi

dei residui del parto e farti il bagno.

Ma non scorreva ancora il gran Ladone

né il più chiaro dei fiumi, l'Erimanto

e arida dovunque era l'Azenide,

detta poi ricca di correnti. Allora,

quando disciolse la cintura Rea,

levava in alto l'umido Iaone

molte querce scavate e molti carri

il Melante sostenne e molte serpi

si scavarono il covo sul Carione,

vivido d'acqua, e l'uomo camminava

sul Crati e sulla Metope sassosa,

arso di sete e l'acqua era abbondante

sotto i suoi piedi. Allora Rea divina,

nell'imbarazzo, disse: "Cara terra,

partorisci anche tu; sono leggeri

i tuoi dolori." Così disse e, teso

in alto il grande braccio, con lo scettro

la dea percosse il monte. Largamente

si aprì in due parti e un grande fiotto d'acqua

sgorgava fuori. Allora il corpo tuo

lavò, signore, e lo fasciò e ti dette

a Neda, la più antica delle Ninfe

che assistettero al parto, dopo Stige

la primissima stirpe e dopo Fìlira,

che ti portasse a Creta, in una grotta,

dove potessi crescere in segreto.

E non le dette in cambio un dono inutile

per compenso la dea, ma chiamò Neda

quella corrente che si porta in piena

verso Nèreo, in un punto non lontano

dalla città cauconia di Leprèo,

ed è l'acqua antichissima, che bevono

i nipoti dell'Orsa licaonia.

Quando la ninfa abbandonava Cnosso

e ti portava a Iene, padre Zeus,

(da Cnosso non distava molto Tene)

ti si staccò, divino, l'ombelico:

perciò quella pianura dai Cidonii

da allora è detta Onfalio. Tra le braccia

delle Melie Dittèe, che sono amiche

dei Coribanti, fosti accolto, Zeus.

In un canestro d'oro ti depose

a dormire Adrastea, alla poppa gonfia

della capra Amaltea succhiasti il latte

e il dolce miele fu tuo nutrimento.

E dell'ape Panacride sull'Ida,

nei monti che hanno il nome di Panacri,

vi fu sùbito l'opera. I Cureti

intorno a te danzarono la prulis

a stretto ritmo, percuotendo le armi,

perché giungesse il suono dello scudo

alle orecchie di Crono e non il pianto

di te bambino. E tu crescesti bene,

ti allevarono bene, Zeus celeste,

rapidamente fosti in fiore è sùbito

la barba ti spuntò. Ma già bambino

formulasti perfetto ogni pensiero.

Perciò i fratelli, pur essendo nati

prima di te, non furono invidiosi

che avessi in sorte per dimora il cielo.

Non erano per nulla veritieri

gli antichi aedi: andavano dicendo

che ai tre figli di Crono fu assegnata

la sede in sorte. E chi, sano di mente,

farebbe a sorte tra l'Olimpo e l'Ade?

Alla pari si rischia nel sorteggio

e queste sono cose assai diverse.

Potrei mentire, solo se riuscissi

a rendere convinto chi mi ascolta:

re degli dèi non ti creò la sorte,

fu l'opera piuttosto delle mani,

la violenza e la forza che tu hai posto

accanto al trono tuo. Per annunciare

i tuoi prodigi hai scelto tra gli uccelli

il più elevato: possa tu mostrarli

a chi mi è caro dalla parte destra.

E scegliesti tra i giovani fiorenti

quanto era meglio: non l'uomo di mare,

e nemmeno di guerra, né il cantore,

ma li lasciasti a dèi meno importanti,

che ognuno avesse cura di qualcosa.

Tu scegliesti chi regge le città,

al cui comando è l'uomo della terra

e l'esperto di lancia e il rematore

ed ogni altro uomo. Cosa può sfuggire

a chi ha potere? E noi cantiamo i fabbri,

gente di Efesto, e i combattenti di Ares

e i cacciatori al séguito di Artemide,

vestita di chitone e, sacro a Febo,

chi ben conosce i canti della lira,

ma "i re da Zeus", ché nulla è più divino

dei re di Zeus. E tu li aggiudicasti.a te per questo ed assegnasti loro

città in custodia e in alto sulle rocche

delle città sedesti a vigilare

su chi comanda con oblique leggi

e su chi fa il contrario. E li colmasti

di opulenza e fortuna. Desti a tutti,

ma non in egual modo. Hai ritenuto

di mettere alla prova il nostro re.

Egli è avanti di molto, in gran misura:

ciò che pensa al mattino compie a sera,

i progetti più grandi compie a sera,

i più piccoli, appena li ha pensati.

Per una cosa agli altri occorre un anno

per altre più d'un anno, d'altre ancora

tu stesso ostacolasti il compimento,

impedisti il pensiero. Salve, salve,

figlio di Crono, altissimo su tutti,

fonte di bene, fonte di letizia.

Le opere tue chi mai potrà cantare?

Mai non c'è stato, mai non ci sarà.

Chi può cantare le opere di Zeus?

Salve, padre, di nuovo ti saluto.

Dacci virtù e ricchezza. La fortuna

senza virtù non può innalzare l'uomo

né vale la virtù senza ricchezza.

E tu concedi a noi virtù e fortuna.

AD APOLLO

Come fu scosso il ramo dell'alloro,

sacro ad Apollo, come tutto il tempio!

Sia lontano, lontano chi è malvagio.

Batte alla porta Febo col bel piede

senza dubbio. Non vedi? All'improvviso

dolcemente ondeggiò la palma delia,

il bel canto del cigno va nell'aria.

Ora da sole, sbarre delle porte,

da sole, chiavi, fate indietro un giro:

il dio non è lontano. Giovinetti,

al canto preparatevi e alla danza.

Apollo non a tutti si rivela,

ma all'uomo retto, e chi lo vede è grande,

chi non lo vide è privo di grandezza.

Noi ti vedemmo, o Lungisaettante,

e mai saremo privi di grandezza.

Non abbiano la cetra senza suono

i fanciulli né il passo silenzioso,

mentre Febo è tra loro, se vorranno

celebrare le nozze e, quando è bianca,

recidere la chioma e che sia saldo

sopra le antiche fondamenta il muro.

Poiché la cetra non è inoperosa,

lode ai fanciulli. Il canto per Apollo

ascoltate in silenzio. Tace il mare

quando gli oggetti del Licóreo Febo,

l'arco o la cetra, esaltano i cantori.

La madre Teti non compiange Achille

luttuosamente, quando "ié peana,

ié peana" ascolta e ha sosta nel dolore

la rupe lacrimosa, che s'innalza,

umido sasso nella Frigia, pietra,

da che era donna urlante la sua pena.

"Ié ié" cantate: è male coi beati

fare contesa. Chi con i beati

è in lotta, lotterebbe col mio re,

chi sta contro il mio re, pure ad Apollo

sarebbe ostile. Apollo darà onore

al coro che col canto l'asseconda,

lo può poiché alla destra di Zeus siede.

Né il coro canterà un sol giorno Febo:

egli è degno di canti, e chi per Febo

non leverebbe il canto a cuor leggero?

D'oro Apollo ha la tunica e il fermaglio,

la lira, l'arco littio e la faretra,

d'oro i calzari. Apollo è pieno d'oro

e d'opulenza. Ne è la prova Pito.

È sempre bello, sempre giovinetto,

non sfiora le sue guance delicate

neppure l'ombra di peluria. A terra

stillano gocce d'olio profumato

dai suoi capelli. Non si spande grasso

dalle chiome di Apollo, ma un rimedio

adatto a tutto e la città, in cui cadono

a terra quelle gocce, ha tutto incolume.

Versatile nell'arte come Apollo

non è nessuno: a lui toccò l'arciere

a lui il cantore (a Febo sono sacri

e l'arco e il canto) a lui sorti e profeti.

I medici impararono da Febo

a scacciare la morte? Dio dei pascoli

Febo inoltre invochiamo, fin da quando,

lungo l'Anfrisso, al pascolo portava

le cavalle da giogo, arso d'amore

per il giovane Admeto. Senza sforzo

si riempirebbe il pascolo dei buoi,

né le capre del gregge, a cui lo sguardo

Apollo rivolgesse, mentre brùcano,

potrebbero restare senza prole,

né senza latte e sterili le pecore,

ma ognuna avrebbe il piccolo alla poppa

e quella che da un parto ha un figlio solo

sùbito avrebbe duplice figliata.

Seguendo Febo gli uomini il tracciato

fecero alle città. Febo ha piacere

ogni volta che sorge una città:

Febo in persona delle fondamenta

stende lo schema. Per la prima volta

Febo a quattro anni costruì ben salde

le fondamenta nella bella Ortigia,

accanto alla palude circolare.

Teste di capre Artemide dal Cinto

portava di continuo dalla caccia;

fece un altare Apollo; con le corna

eresse un piedistallo, con le corna

l'altare fabbricò e gettava intorno

mura di corno: Febo così apprese

la prima volta a far le fondamenta.

La mia città dal fertile terreno

a Batto indicò Febo e fu la guida

del popolo che entrava nella Libia,

in aspetto di corvo, sulla destra

del fondatore e fece giuramento.di donare le mura ai nostri re:

sempre mantiene Apollo ciò che giura.

Molti, Apollo, ti chiamano Boedromio,

molti Clario; dovunque hai molti nomi,

io ti dirò Carnèo, secondo l'uso

dei padri mei. Carnèo, delle tue sedi

Sparta è la prima, Tera la seconda

e la terza la rocca di Cirene.

Da Sparta a Tera per la fondazione

ti trasportò la sesta stirpe di Edipo.

Da Tera nella terra degli Asbisti

l'incorrotto Aristotele ti pose.

Un tempio ti innalzò di gran bellezza

e un rito annuale stabilì in città,

durante il quale piombano sul fianco

molti tori, signore, in fin di vita.

Ié ié, Carnèo, più volte supplicato,

in primavera portano i tuoi altari

fiori d'ogni colore, quanti le Ore,

quando Zefiro spira la rugiada,

diffondono; d'inverno il dolce croco;

sempre il fuoco è perenne e mai la cenere

del carbone di ieri si alimenta.

Molto Febo esultò, quando danzarono,

cinti da guerra, gli uomini di Eniò,

con le libiche bionde, alle Carnèe,

allor che giunse il tempo stabilito.

Non ancora potevano accostarsi

i Dori all'acqua della fonte Cira,

ma sull'Azili, fitto di convalli,

avevano dimora. Il dio in persona

sopra il Mirtussa dalle vette a corna

li vide e li indicò alla ninfa sua,

dove la figlia d'Ipseo fece strage

del leone che i buoi predava a Euripilo.

Non vide Apollo un coro più divino,

né mai beneficò un'altra città,

come Cirene, avendo nel ricordo

l'antico rapimento. Né i Battiadi

più di Febo onorarono altro dio.

"Ié ié; Peone!" udiamo. Questo nome

la prima volta il popolo di Delfi

negli inni ti trovò, quando mostrasti

l'arte di maneggiare l'arco d'oro.

Mentre scendevi a Pito ti fu incontro

la sacra bestia, orribile serpente:

scagliando acute frecce una sull'altra

tu l'uccidesti e il popolo acclamò:

"Ié ié, Peone, fa partire il dardo;

ti generò tua madre da principio

soccorritore", e sempre da quel tempo

sei invocato così. L'Invidia disse

all'orecchio di Apollo di nascosto:

"Non mi piace il poeta che non canta

quanto il mare." Col piede Apollo indietro

spinse l'Invidia e disse: "La corrente

del fiume assiro è grande, ma sull'acqua

trascina molte scorie della terra

e molto fango. Non da tutti i luoghi

portano le api l'acqua per Deò,

ma la piccola goccia che zampilla,

limpida e pura da una fonte sacra,

suprema qualità." Salve, Signore,

dov'è l'Invidia il Biasimo ritorni.

AD ARTEMIDE

Artemide cantiamo (per chi canta

non è lieve ignorarla), che ama gli archi

e la caccia alla lepre e il vasto coro

e scherzare sui monti, cominciando

da quando, ancora piccola bambina,

in questo modo si rivolse al padre,

stando seduta sulle sue ginocchia:

"Concedimi, papà, di rimanere

vergine sempre e avere molti nomi,

perché Febo con me non venga a gara.

Concedimi archi e frecce; suvvia, padre,

non ti chiedo di darmi una faretra

né un grande arco. Per me i Ciclòpi sùbito

fabbricheranno frecce, per me un arco

dalla forma ricurva. Ma ti chiedo

di portare la luce e di indossare

una tunica corta sul ginocchio

col bordo all'orlo, per andare a caccia

di animali selvatici. Concedimi

sessanta danzatrici oceanine

tutte di nove anni, tutte ancora

bambine che non portano cintura.

Al mio servizio dammi venti ninfe

del fiume Amnìso, che dei miei calzari

e dei cani veloci abbiano cura,

come si deve, quando non colpisco

linci né cervi. Dammi tutti i monti,

ma una città riservami qualunque,

quella che vuoi: discende raramente

Artemide in città. La mia dimora

sarà sui monti e le città degli uomini

frequenterò soltanto, quando, morse

dagli acuti dolori del travaglio,

in aiuto mi chiamino le donne.

Dalle Moire ebbi in sorte, appena nata,

di assisterle, poiché nel partorire

e nel portarmi non soffrì mia madre,

ma, senza alcun dolore, mi depose

dalle sue membra." Dette queste cose,

attaccarsi voleva la bambina

alla barba del padre e molte volte

tese invano le mani per sfiorarla.

Ridendo assentì il padre e le rispose,

carezzandola: "Se mi partorissero

le dèe creature simili, pochissimo

avrei pensiero di Era, che si adira

per gelosia. Le cose che mi chiedi

e di cui ti accontenti, eccoti, figlia.

Altre cose più grandi darà il padre:

trenta città, non una sola torre,

trenta città ti donerò per giunta

che nessun altro dio celebreranno,

ma solo te, dicendosi di Artemide;

molte città sul continente ed isole

con altri da dividere, ed in tutte.altari vi saranno per Artemide

e boschi sacri, e tu sarai custode

delle strade e dei porti." Così detto

confermò con il capo le parole.

E la fanciulla andò sul monte Bianco,

nell'isola di Creta, su cui crescono

chiome di boschi, e andò di lì all'Oceano.

E numerose ninfe per sé scelse

tutte di nove anni, tutte ancora

bambine che non portano cintura

ed il fiume Cerato era ben lieto

e lieta Tethi, che le loro figlie

mandavano alla figlia di Letò

come compagne. Quindi alla ricerca

si recò dei Ciclòpi. Li raggiunse

nell'isola di Lipari (oggi Lipari

ma allora si chiamava Meligunide)

che stavano alle incudini di Efesto

intorno ad una massa incandescente.

Un gran lavoro urgeva; fabbricavano

un abbeveratoio per i cavalli

a Poseidone. Furono atterrite

le ninfe nel vedere i mostri orrendi,

che parevano i vertici dell'Ossa

(a tutti la pupilla di un sol occhio,

grande come uno scudo ricavato

da quattro cuoi di bue, lanciava sguardi

terrificanti sotto il sopracciglio),

e quando il suono cupo dell'incudine

udirono echeggiare fortemente

e il gran vento dai mantici soffiato

e il pesante ansimare dei Ciclòpi.

Ne risonava l'Etna, la Trinacria

ne risonava, sede dei Sicani,

ne risonava la vicina Italia

e un gran rimbombo rimandava Cirno,

quando i martelli alzando sulle spalle

e battendo con ritmo ininterrotto,

dalla fornace, il rame che bolliva

o il ferro, con gran forza sospiravano.

Perciò mancò il coraggio alle Oceanine

di vederli di fronte e di ascoltare

il cupo suono, senza aver timore.

Non c'è da vergognarsi: anche le figlie

non più tanto piccine dei beati

non li vedono senza raccapriccio.

Ma quando una bambina con la mamma

si mostra poco docile, la madre

va a chiamare i Ciclòpi per la figlia,

Arge e Sterope. E allora viene avanti

dal fondo della casa Ermes spalmato

col nero della cenere. All'istante

si nasconde impaurita la bambina

nel seno della mamma, con le mani

davanti agli occhi. Tu, bambina, invece

anche la prima volta, benché avessi

solo tre anni, quando con te in braccio

giunse Letò (per presentarle i doni

Efesto l'invitava), poiché Bronte

sopra le sue ginocchia vigorose

a sedere ti mise, gli afferrasti

sul vasto petto un gran ciuffo di peli

e tirasti con forza. E ancora adesso,

proprio al centro del petto, gli rimane

senza peli una zona, come quando

s'insedia sulla testa l'alopecia

e devasta la chioma di qualcuno.

Allora, senza l'ombra di paura,

in questo modo ad essi si rivolse:

"Ciclòpi, fabbricate anche per me,

suvvia, qualche arco dei Cidonii e i dardi

ed un concavo astuccio per le frecce.

Io pure sono figlia di Letò

come lo è Apollo. Se con l'arco a caccia

catturerò una belva solitaria

o un animale di grandezza immane,

i Ciclòpi l'avranno come pasto."

Dicesti, essi eseguirono, ti armasti

rapidamente, dea. Subito dopo

andavi alla ricerca della muta.

Ti recasti in Arcadia, nella grotta

dove dimora Pan. Carne di lince,

proveniente dal Ménalo, tagliava,

perché le cagne di recente parto

potessero nutrirsi. A te il barbuto

dette due cani bianchi per metà,

tre rossicci, uno a macchie, che al covile

i leoni perfino, ancora vivi,

all'indietro riversi, sanno trarre,

con le zanne piantate dentro il collo.

Sette cagne ti dette Cinosuridi,

più veloci del vento, rapidissime

i cerbiatti a rincorrere e la lepre

che non chiude mai gli occhi e a segnalare

dove ha il giaciglio il cervo e i covi l'istrice

e a guidare sulle orme del capriolo.

Di là partita (e i cani ti seguivano),

trovasti delle cerve che saltavano

sui valichi montani del Parrasio.

Qualcosa di grandioso: pascolavano

più maestose di tori, sempre a riva

del fiume Anauro dalla ghiaia nera

e riluceva l'oro delle corna.

Lo stupore ti colse all'improvviso

e dicesti tra te: "Degna di Artemide

sarebbe questa come prima caccia."

Erano cinque in tutto: quattro in corsa

ne catturasti svelta senza i cani,

perché il veloce carro ti portassero.

La sola che oltre il fiume Celadonte,

su consiglio di Era, fuggì via

- per divenire poi una prova di Eracle-

la ricevette il colle di Cerinio.

Artemide Partenia, che di Titio

facesti strage, hai d'oro arco e cintura

ed attaccasti al giogo un carro d'oro

e freni d'oro, dea, desti alle cerve.

E dove ti portò la prima volta

il carro di animali con le corna?

Sull'Emo trace, da cui giunge il soffio

tempestoso di Borea e porta un gelo

esiziale per chi non ha il mantello.

E la fiaccola dove la tagliasti

e a quale fiamma l'accendesti? Un alito.di fuoco producesti inestinguibile,

che sprigionano i fulmini del padre

sull'Olimpo di Misia. E quante volte

sperimentasti, dea, l'arco d'argento?

La prima volta a un olmo, la seconda

a una quercia mirasti, ad una belva

la terza volta, non contro una quercia

mandasti il tiro per la quarta volta,

ma contro una città d'uomini ingiusti,

con un comportamento molto empio

verso se stessi e verso gli stranieri,

infelici, cui lasci impresso il segno

d'un'ira rovinosa. Dalla peste

le loro bestie sono divorate,

dal gelo i seminati, per i figli

i vecchi si recidono la chioma,

le donne, fatte segno dei tuoi colpi

o muoiono di parto, o, se si salvano,

partoriscono figli che non stanno

ritti sulle caviglie. Ma a coloro

a cui ti volgi mite e sorridente,

porta il campo la spiga, bene cresce

la razza dei quadrupedi e la casa;

vanno al sepolcro, solo per portare

qualcuno molto vecchio, la discordia,

che rovina le case ben piantate,

non danneggia la razza e le cognate

stanno sedute ad una stessa mensa.

Chi mi è amico sincero faccia parte

di costoro, o divina, e possa anch'io

esser tale, signora, e avere a cuore

il canto sempre: in esso vi saranno

le nozze di Letò, vi sarai tu,

con gran rilievo e Apollo e le tue imprese,

nessuna esclusa, e i cani e gli archi e il carro

che senza sforzo, splendida, ti porta

quando a casa di Zeus tu lo dirigi.

Lì nel vestibolo Ermes Acachesio

ti viene incontro a prendere le armi

ed Apollo la preda che tu porti,

qualunque sia - così accadeva un tempo

quando non era giunto il forte Alcide -.

Ora non ha più Febo questo cómpito

in tal modo sta sempre sulla porta

"l'incudine tirintia", nell' attesa

che tu giunga, portando da mangiare

qualche ricco boccone. Alle sue spalle

a non finire tutti gli dèi ridono

e la suocera più di tutti gli altri,

quando un toro grandissimo o un cinghiale

che si dibatte, carico di forza,

per le zampe di dietro trae dal carro.

E con questo discorso interessato

ti dà istruzioni, dea: "Colpisci bestie

che fanno danni, in modo che i mortali

ti invochino in aiuto, come me;

lascia cerbiatti e lepri a pascolare

sulle montagne. Cosa fanno mai

cerbiatti e lepri? Guastano i cinghiali

i seminati, gli alberi i cinghiali

ed anche i buoi sono un malanno grave

per gli uomini: colpisci pure questi."

Così dicendo intorno alla gran bestia

si dà da fare con sveltezza; infatti,

quando il suo corpo fu divinizzato

sotto la quercia frigia, egli non smise

di essere vorace; ha sempre il ventre

per cui una volta contro Teiodamante,

che stava arando, suscitò una lite.

Le ninfe dell'Amnìso per te strigliano

le cerve liberate dalle cinghie

e danno loro in pasto in abbondanza

il trifoglio di crescita veloce

che hanno raccolto dal giardino di Era

- i cavalli di Zeus pure ne mangiano -,

colmano d'acqua i recipienti d'oro

perché abbiano le cerve acqua gradevole.

Alla casa del padre ti dirigi:

t'invitano egualmente al loro seggio

tutti gli dèi: tu siedi presso Apollo.

Quando le ninfe in coro ti circondano

presso le fonti dell'egizio Inopo

o a Pitane (Pitane pure è tua)

o a Limne o dove, dea, per dimorarvi

venisti dalla Scizia, Ale Arafenide,

e le usanze dei Tauri rifiutasti,

non arino in quel tempo le mie vacche,

date in affitto, un campo che misura

quattro piene giornate di fatica,

sotto un altrui aratore: al letamaio

farebbero ritorno zoppicanti

col collo affaticato, anche se fossero

bestie di nove anni, di Stinfèa,

dalle corna capaci di trainare,

superiori ad ogni altra per aprire

profondi solchi. Infatti, quel bel coro

non supera il dio Elios, ma lo ammira,

fermando il carro, e il giorno si fa lungo.

Che isola, che monte, quale porto

ti fu più caro, che città, che ninfa

amavi più delle altre? E che eroine

avesti accanto? Dillo a noi, tu, dea,

ed io lo canterò per l'altra gente.

Ti fu gradita Dòliche fra le isole,

Perge fra le città, caro fra i monti

ti fu il Taigeto e i porti dell'Euripo.

La ninfa di Gortina, Britomarti

amavi più delle altre, cacciatrice

di buona mira, per la quale un tempo

Minosse, follemente innamorato,

per i monti di Creta scese in corsa.

Ora andava a nascondersi la ninfa

sotto le querce ricche di fogliame,

ora nei prati. Andò per nove mesi

egli girando tra costoni e rupi

e non sospese mai l'inseguimento,

finché, quasi raggiunta, ella nel mare

balzò da un alto scoglio e nelle reti

dei pescatori andò a cadere in salvo.

I Cidonii da allora danno il nome

di Dittinna alla ninfa e di Dittèo

al monte da cui giù balzò la ninfa.

Posero altari e fanno sacrifici

e corone di pino e di lentisco.in quel giorno vi sono e non si tocca

il mirto con le mani; allora infatti

un rametto di mirto nella fuga

s'impigliò tra le vesti alla fanciulla,

e perciò molto si adirò col mirto.

Upi signora di splendente aspetto,

portatrice di luce, danno il nome

da quella ninfa pure a te i Cretesi.

E Cirene prendesti per compagna

e due cani da caccia le donasti

con cui la figlia di Ipseo nella gara

alla tomba di Iolco vinse il premio.

E di Cefalo, figlio di Deione,

la bionda sposa per compagna accanto

volesti a caccia e amasti, a quanto dicono,

l'attraente Anticlea, come la luce

degli occhi tuoi. Per prime esse portarono

veloci frecce e in spalla la faretra,

piena di dardi e avevano scoperta

la spalla destra e sempre nudo il seno.

Anche Atalanta dai veloci piedi,

figlia di Iasio, della stirpe d'Arcade

che sterminò il cinghiale, avesti cara

e le insegnasti l'arte della caccia

con la muta dei cani e il tirar d'arco.

E coloro che furono invitati

a caccia del cinghiale calidonio

non hanno alcuna critica da farle:

portò in Arcadia insegne vittoriose

ed ha tuttora i denti della fiera.

Non credo che nell'Ade, pure odiandola,

parlino male dell'arciera Ilèo,

né il dissennato Reco. Non potrebbero

sostenere con loro la menzogna

i loro fianchi, da cui in vetta al Mènalo

scorreva sangue. Dea dai molti templi,

dalle molte città, Chitonèa, salve,

te che Mileto ben conosce e Nèleo

fece sua guida, quando con le navi

tornava da Cecropia. Dea del Chesio,

dea dell'Imbraso, tu che hai il primo trono,

nel tempio tuo il timone della nave

Agamennone offrì per propiziarsi

un buon viaggio per mare, poiché i venti

tu trattenesti, quando navigarono,

irate a causa d'Elena Ramnuside,

le navi achee, portando la rovina

alla città dei Teucri. E per te eresse

due templi Preto, l'uno come Coria,

poiché riconducesti le sue figlie

che erravano sui monti dell'Azenide,

e l'altro in Lusi come Domatrice,

poiché dalle fanciulle eliminasti

la tendenza ferma. A te innalzarono

le Amazzoni, fautrici della guerra,

sulla marina d'Efeso una statua

sotto un tronco, una quercia, e Ippò per te

celebrò il rito, ed esse, Upi signora,

tutt'intorno danzarono la prulis,

prima armate al completo con gli scudi,

poi in giro, disponendosi in un cerchio

di vaste proporzioni, e le siringhe

facevano da sfondo, melodiose

lievemente, perché, secondo il ritmo,

battessero la terra (non ancora

dannosa al cervo, l'opera di Atena

forato aveva l'osso di cerbiatto).

Da Sardi l'eco corse al territorio

dei Berecinzi. Senza interruzione

facevano gran strepito coi piedi

e mandavano suono le faretre.

Intorno a quella statua fu poi eretto

un vasto santuario, di cui nulla

più divino e fastoso vedrà Eos:

senza fatica vincerebbe Pito

Si vantò di distruggerlo da folle

il prepotente Ligdami e condusse

un esercito fitto come sabbia

di Cimmerî che mungono cavalle

ed hanno la dimora sullo stretto

della giovenca Inachia. Ah, vile re,

che gran peccato! Non doveva mai

tornarsene di nuovo nella Scizia

e come lui chiunque aveva i carri

nei prati del Caìstro. Avanti ad Efeso

c'è sempre la barriera dei tuoi dardi.

O dea Munichia, che proteggi i porti,

salve Ferèa. Nessuno oltraggi Artemide

(non per Enèo, che trascurò l'altare

vennero belle prove alla città)

né si competa nella caccia al cervo

o nel tirare d'arco (non fu il vanto

pagato dall'Atride a basso prezzo)

né si aspiri alla vergine (non 0to

né Orione fauste nozze ricercarono)

né la danza annuale si respinga

(non senza pianto di danzare in cerchio

Ippò si rifiutò presso l'altare).

Salve, sovrana, molte volte salve,

a te giunga gradito questo canto.

A DELO

In quale tempo, cuore, canterai

la sacra Delo che ha nutrito Apollo?

Certo tutte le Cicladi, le isole

più sacre che si trovano nel mare,

sono degne di canto, ma per prima

Delo vuole la gloria delle Muse,

poiché Febo, dei canti protettore,

lavò per prima e strinse nelle fasce

e gli rivolse lodi come a un dio.

Come il cantore che non canta Pimpla

hanno in odio le Muse, così Febo

chiunque tralasci di cantare Delo.

A Delo ora offrirò parte del canto

perché mi dia la gloria Apollo Cinzio

se mi dò cura della sua nutrice.

Sta immobile nel mare, in mezzo ai venti,

flagellata dai flutti, non arabile,

aperta più ai gabbiani che ai cavalli.

E il mare, intorno a lei, vasto nei vortici,.sfrega e rigetta schiuma senza fine

dell'onda icaria. Quindi l'abitarono

i naviganti a pesca con l'arpione.

Ma non può provocarle alcun rancore

avere il primo posto: quando insieme

verso l'Oceano e la Titania Tethi

si affollano le isole, per prima

apre sempre la strada. Segue il passo

Cirno fenicia non di poco pregio

e Macride Abantiade degli Ellopii

e la piacevole Sardegna e l'isola

a cui la prima volta a nuoto Cipride

fuori dall'acqua giunse e che protegge

in cambio delle offerte per gli imbarchi.

Quelle sono difese dal riparo

di torri intorno, Apollo guarda Delo.

Che baluardo è più forte? Mura e pietre

potrebbero cadere sotto l'urto

dello strimonio Borea, ma incrollabile

è sempre il dio. Di un tale protettore

hai trovato l'abbraccio, Delo cara.

Se moltissimi canti ti circondano

con quale potrò avvincerti? Che canto

sarà per te piacevole ascoltare?

O come il grande dio, scuotendo i monti

con l'arnese a tre punte, fabbricato

dai Telchini per lui, prima di tutto

edificava le isole marine

e come fece leva dal di sotto,

sollevandole tutte fin dal fondo

e nel mare le spinse a rotolare?

Ed egli le fissò profondamente

sotto l'abisso, fino alle radici,

perché dimenticassero la terra,

ma la necessità te non costrinse

e navigavi libera nei mari

e avevi nome Asteria, nel passato

poiché saltasti nel profondo abisso,

fuggendo giù dal cielo, come un astro,

il connubio con Zeus. Per tutto il tempo

che non ebbe con te nessun contatto

Letò dorata, ti chiamavi Asteria

e non ancora Delo. E da Trezene,

cittadella di Xanto, andando ad Efira

i naviganti spesso ti avvistarono

entro il golfo Saronico, ma da Efira

non ti videro più, tornando indietro.

E tu corresti nello stretto Euripo,

rapido passo dal sonante flutto,

e nello stesso giorno, tralasciando

il mare della costa calcidese,

nuotasti fino al promontorio Sunio

degli Ateniesi, e a Chio e alla mammella

molle d'acqua dell'isola Partenia

(non ancora era Samo) e lì ospitali

ti accolsero le ninfe Micalessidi

che sono confinanti con Anceo.

Quando il suolo natio desti ad Apollo

in cambio ricevesti questo nome

dai naviganti; quindi per i mari

non giravi più ignota, ma i tuoi piedi

posero le radici nell'Egeo.

E non tremasti per le furie di Era.

Ruggiva orribilmente strepitando

contro tutte le donne, che, sgravandosi,

davano figli a Zeus e specialmente

contro Letò che avrebbe partorito,

lei sola, un figlio a Zeus più caro d'Ares.

Perciò stava in persona ad osservare

dentro l'ètere, in preda a un'ira grave

da non potersi dire e respingeva

Letò in travaglio. Stabili per lei

scrutavano la terra due custodi:

Ares violento l'uno, in armatura,

sorvegliava gli spazi in terraferma,

di stanza sopra la svettante cima

dell'Emo trace ed erano all'addiaccio

presso l'antro di Borea a sette gole

due cavalli per lui; sostava l'altra,

la figlia di Taumante, di vedetta

alle isole scoscese, con un balzo

salita sul Mimante. Minacciosi

sovrastavano tutte le città

alle quali Letò si rivolgeva

non permettendo loro di ospitarla.

Era in fuga l'Arcadia, in fuga il monte

sacro ad Auge, il Partenio, ed era in fuga

dietro di loro il vecchio Fèneo e in fuga

si ritraeva tutto il territorio

di Pelope, che giace lungo l'Istmo,

salvo che Egiàlea ed Argo: in quei sentieri

non passò affatto, poiché in sorte ad Era

toccò la terra d'Inaco. Fuggiva

anche l'Aonia in una sola corsa

e le andavano dietro Dirce e Strofie,

che il padre Ismeno dalla ghiaia nera

portavano per mano. Molto indietro,

con ginocchia pesanti, da che il fulmine

l'intorbidò, l'Asopo le seguiva.

E interruppe la danza con un brivido,

impallidendo un poco nelle guance,

Melia, la ninfa di quel luogo, in ansia

per la quercia, compagna dei suoi giorni,

quando un tremito scorse nella chioma

dell'Elicona. Mie divine Muse,

ditemi dunque: è vero che le querce

nacquero con le ninfe in un sol tempo?

"Le ninfe sono piene di letizia

quando l'acqua fa crescere le querce,

sono piene di lacrime le ninfe,

quando le querce perdono le foglie."

Adirato con loro gravemente,

ancora dentro il seno gridò Apollo,

formulando minacce contro Tebe

non senza compimento: "Perché indaghi

sul tuo destino, sciagurata Tebe,

che verrà presto? Contro il mio volere

non mi costringerai a vaticinare.

Il seggio che è sul tripode di Pito

non mi appartiene adesso, non è morto

per ora il gran serpente, ma dal Plisto

quella belva dalle orride mascelle

striscia ancora, stringendo in nove spire

il nevoso Parnaso. Tuttavia.io ti dirò qualcosa più tagliente

che se vaticinassi dall'alloro:

fuggi pure, sarò veloce a coglierti

per bagnare nel sangue l'arco mio.

Ti toccarono i figli d'una donna

di malefica lingua; mia nutrice

non sarai tu né il Citerone. Puro

io possa stare a cuore a gente pura."

Così disse e Letò, mutando strada,

se ne tornava indietro un'altra volta.

Ma quando rifiutarono di accoglierla,

non appena arrivò, le città achèe,

Elice, amica a Poseidone e Bura,

la stalla delle mandrie di Dessàmeno,

figlio di Eceo, di nuovo alla Tessaglia

si volgeva. E l'Anauro la fuggiva

e la grande Larìssa la fuggiva

e le vette Chironidi e il Penèo

fuggiva pure, attraversando Tempe

vorticoso. Implacabile il tuo cuore,

Era, restava sempre e non provasti

commozione né pena, quando invano,

le due braccia tendendo, ella parlò

in questo modo: "Ninfe di Tessaglia,

figlie del fiume, dite al vostro padre

di addormentare la sua gran corrente.

Supplicatelo, il mento tra le mani,

perché i figli di Zeus nascano in acqua.

Perché gareggi adesso con i venti,

Penèo Ftiota? Certamente, padre,

non sei montato in groppa ad un cavallo

che corre per il premio. E i piedi tuoi

sono così veloci in ogni tempo

o soltanto per me sono leggeri

e li hai fatti volare all'improvviso

in questo giorno? Non mi sta a sentire!

O peso mio, dove ti porto? I tendini

sono venuti meno senza forze.

Fèrmati almeno tu, fèrmati, Pelio,

dove Fìlira fece le sue nozze,

poiché tra i tuoi rilievi anche le belve,

le leonesse, deposero talvolta

i prodotti dei parti dolorosi."

E piangendo il Penèo le rispondeva:

"Grande, Letò, è la dea Necessità;

non io, signora, sfuggo il tuo travaglio,

so che altre, dopo il parto, si bagnarono

dentro di me, ma orribili minacce

Era mi fece. Osserva che custode

sta di vedetta in alto sopra il monte,

che potrebbe tirarmi facilmente

fuori dal fondo. Cosa escogitare?

Dolce è per te la fine del Penèo?

Ma venga pure il giorno destinato;

io soffrirò per te, dovesse il flusso

delle mie onde rimanere in secca

in ogni tempo e il più disonorato

fossi detto tra i fiumi. Sono qui.

Che dir di più? Chiama soltanto Ilitia."

Disse e trattenne la sua gran corrente.

Ma Ares, sollevate fin dal fondo

le vette del Pangèo, si preparava

a lanciargliele contro dentro i flutti,

soffocandone il corso. Mandò un rombo

dall'alto e con la punta della lancia

batté lo scudo che vibrò col ritmo

dell'enoplio. Le cime montuose

dell'Ossa, e la pianura di Crannone

e le vette del Pindo, flagellate

dall'impeto dei venti, ne tremarono

e tutta la Tessaglia sussultò

per la paura. Tale fu il fragore

che risonò rombando dallo scudo.

Come quando dell'Etna sono scossi

tutti i recessi tra le fiamme e il fumo,

poiché si gira sopra l'altro lato

il gigante Briarèo che giace sotto

e le fucine e le fatiche insieme

la tenaglia di Efesto fa vibrare

ed i lebèti lavorati a fuoco

e i tripodi, cadendo uno sull'altro,

fanno un fragore orribile, fu tale

lo strepito prodotto quella volta

dallo scudo rotondo. Ma il Penèo

non si traeva indietro, rimaneva,

come in principio, pieno di coraggio

e tenne fermi i vortici veloci,

finché non fu raggiunto dal richiamo

della figlia di Ceo: "Sàlvati pure,

sàlvati, non soffrire il male mio

per questa compassione: il tuo favore

avrà la ricompensa." E si rivolse,

dopo gran pena, alle isole del mare.

Ma non la ricevevano al suo arrivo,

non le Echinadi, che hanno per le navi

uno splendido porto, non Corcira,

più ospitale di ogni altra, poiché Iris,

dall'alto del Mimante, ricacciava,

con terribile furia, tutte indietro.

Fuggivano a gran forza sotto i flutti,

a seconda che il grido le cogliesse.

E quindi verso l'isola di Cos,

l'antica Meropeide, se ne andava,

che era di Calcìope, l'eroina,

sacro rifugio. Ma con questa voce

indietro il figlio la traeva: "Madre,

non mi dare alla luce in questo luogo:

non per disprezzo o sdegno verso l'isola,

che è splendida e di pascoli fiorente,

quanto altra mai, ma in debito le Moire

hanno nei suoi riguardi un altro dio,

della stirpe sovrana dei Soteres,

e sotto il suo diadema, a lui macedone

verranno l'uno e l'altro continente

spontaneamente a farsi dominare

e quante terre giacciono sui mari

fin dove è l'occidente e fin da dove

veloci portano i cavalli il sole.

I costumi del padre farà suoi

e giungerà in futuro qualche prova

in comune tra noi, quando levato

il barbaro pugnale e l'Ares celtico

contro gli Elleni, gli ultimi Titani

dall'estremo occidente accorreranno,.pari a fiocchi di neve o numerosi

come le stelle, quando vanno errando

fittissime nei pascoli dell'aria.

.....................................................

e le piane Crissèe saranno strette

e i burroni di Efesto e il greve fumo

vedranno del vicino che va a fuoco

e non ne avranno solo la notizia,

ma proprio accanto al tempio scorgeranno

le falangi nemiche ed i pugnali

e le cinture senza alcun rispetto

presso i tripodi miei e gli odiosi scudi

che ai Galati, una razza dissennata,

apriranno la strada rovinosa.

Alcuni li avrò in dono, un'altra parte,

dopo aver visto chi li aveva indosso

spirare presso il Nilo in mezzo al fuoco,

del re che ha sostenuto tante prove

sarà possesso. Tolemeo futuro,

ecco per te gli oracoli di Febo

e farai grandi lodi in ogni tempo

al profeta che è ancora dentro il grembo.

E tu rifletti, madre: sopra l'acqua

un'isola si scorge, poco estesa,

vagante in mezzo ai flutti. Non ha i piedi

in nessun luogo, ma, secondo il flusso,

galleggia come un gambo di asfodèlo

al soffio ora di Noto, ora di Euro,

dove il mare la spinge. Là tu portami,

andrai da chi ti accoglie volentieri."

Si dileguavano alle sue parole

le isole nel mare. Tu scendevi,

Asteria, che ami il canto, dall'Eubea,

per visitare il cerchio delle Cicladi,

non da gran tempo, ma nella tua scia

seguiva ancora l'alga del Gerestio.

E come la scorgesti, ti fermasti

e vedendo la dea che era prostrata

per il travaglio, piena di ardimento,

così parlasti............

"Era, fa di me pure quel che vuoi,

non mi guardai dalle minacce vostre,

vieni pure da me, vieni, Letò."

Così dicevi ed ella volentieri

al suo vagabondare doloroso

pose una fine. Presso la corrente

sedeva dell'Inopo, che la terra

fa sgorgare copioso, quando il Nilo

dal precipizio etiopico discende

col corso in piena. Sciolse la cintura

e si appoggiò all'indietro con le spalle

al tronco d'una palma, sopraffatta

da un impaccio penoso. Sulla pelle

le scorrevano gocce di sudore.

Disse agitata: "Perché mai, bambino,

fai soffrire tua madre? Eccoti, caro,

l'isola navigante per il mare:

nasci, nasci, bambino, dolcemente

esci dal grembo." E tu, sposa di Zeus,

grave nell'ira, non potevi certo

restare ignara. Corse in modo tale

da te la messaggera e ancora ansante

ti riferì e il racconto si mischiava

con la paura. "Venerabile Era,

tu che di molto superi le dèe,

io ti appartengo, tutto ti appartiene,

legittima sovrana dell'Olimpo

tu siedi, né altra mano femminile

ci fa paura. Tu saprai il colpevole

dell'ira tua, signora. Dentro un'isola

Letò discioglie la cintura. Indietro

ogni altra la respinse con orrore

e non la ricevevano, ma Asteria

per nome la chiamò, mentre passava,

Asteria, quel perverso luridume

del mare: la conosci pure tu.

Ma, cara, tu lo puoi, punisci dunque

i tuoi servi, divina, che per terra

calpestano il comando da te dato."

Disse e sedeva sotto il trono d'oro

come una cagna. Come nelle pause

della veloce caccia, accanto ai piedi

siede una delle cagne cacciatrici

di Artemide, le orecchie bene ritte,

pronta a cogliere il grido della dea,

in ogni istante, tale sotto il trono

la figlia di Taumante si sedeva.

Mai tralascia la cura del suo posto

neppure quando il sonno su lei pesa

con l'ala dell'oblio, ma di traverso,

poggiando un poco il capo sullo spigolo

del grande trono, dorme e la cintura

e i veloci calzari mai discioglie

nel timore d'un ordine inatteso

della padrona. E questa, in preda all'ira,

rispondeva con pena: "Così dunque

fate pure le nozze di nascosto,

svergognate di Zeus, ed in segreto

i vostri parti, dove non le serve

subiscono difficili travagli,

ma dove partoriscono le foche,

che vivono sul mare, sopra scogli

abbandonati. Ma per questo inganno

non ho nessun rancore contro Asteria

e non la punirò, come dovrei

(favorendo Letò, fece un gran male),

ma un riguardo speciale le riservo,

perché non tese inganni al letto mio

e a Zeus preferì il mare." Così disse

ed i cigni canori sacri al dio

dal Meonio Pattòlo sette volte

girarono cantando intorno a Delo,

uccelli delle Muse, melodiosi

più d'ogni altra creatura con le ali,

e il parto accompagnarono col canto

(perciò, dopo, il fanciullo tante corde

legò alla lira, quante volte i cigni

cantarono nel tempo del travaglio),

ma per l'ottava volta non cantarono:

egli fuori balzò e le ninfe Delie,

figlie del fiume antico, lungamente

levarono di Ilitia il sacro canto

e sùbito da un urlo penetrante

fu ripercosso l'ètere di bronzo..Era non fu adirata, perché Zeus

ne disperse il rancore. Allora, Delo,

divenne d'oro ogni tuo fondamento

e al lago tondo rifluiva l'oro

per tutto il giorno ed ebbe chioma d'oro

per la nascita il ramo dell'olivo

e il fondo Inopo vorticoso d'oro

fu traboccante. Il bimbo sollevasti

dal suolo d'oro e lo prendesti in grembo,

parlando in questo modo: "Terra grande,

ricca di altari, ricca di città,

ricca di doni e fertili contrade

di terraferma ed isole d'intorno,

questa son io: non buona a coltivarsi,

ma Apollo sarà detto da me Delio

e nessun'altra terra un altro dio

avrà cara a tal punto, non la Cèrenide

Poseidone, signore del Lechèo

non Ermes la collina di Cillene

non Creta Zeus, quanto amerà me Apollo.

E non andrò più errando senza mèta."

Così dicesti ed egli succhiò il latte

alla dolce mammella. Da quel tempo,

per questo, come l'isola più santa,

o nutrice di Apollo, sei invocata.

Né Eniò né Ade toccano il tuo suolo

né i cavalli di Ares, ma annualmente

ti sono offerte sempre le primizie

con l'invio delle decime e ti guidano

cori di danze tutte le città,

quelle d'oriente e quelle d'occidente

e quelle a cui toccò per sorte il sud

e coloro che a nord hanno le case

al di là delle spiagge boreali,

antichissima razza. Essi le stoppie

e i manipoli sacri delle spighe

ti portano per primi. Questi doni

ricevono in arrivo da lontano

primissimi i Pelasgi di Dodòna,

che attendono al lebete che non tace

dormendo a terra. La seconda tappa

sono la città d'Irio e le montagne

della regione Mèlide, da dove

fanno la traversata verso il piano

fertile di Lelànto degli Abanti:

non è lunga la rotta dell'Eubea,

poiché sono vicini i tuoi ancoraggi.

Tra le bionde Arimaspe queste offerte

le figlie ti portarono di Borea,

Upi e Loxò per prime ed Ecaerga

beneaugurante, e i maschi più valenti

tra i giovinetti. Indietro non tornarono,

ma ebbero un destino fortunato

e non furono mai privi di gloria.

La chioma della nascita alle vergini

le giovani di Delo, quando dolce

l'imeneo suona e turba col timore

la consueta vita di fanciulle,

i maschi il primo fiore della barba

ai giovinetti portano in offerta.

Asteria profumata, un cerchio intorno

a te fecero le isole e ti cinsero

come un coro di danze. Silenziosa

e priva di frastuono non ti vede

con le sue chiome ricce Espero mai,

ma sempre da ogni parte risonante.

Gli uni intonano il canto melodioso

del vecchio licio che il profeta Oleno

da Xanto riportò, battono le altre,

le fanciulle, col piede il saldo suolo.

E allora si ricopre di corone

la sacra statua, pronta a dare ascolto,

della Cipride antica che fu eretta

da Teseo un tempo, quando navigava,

di ritorno da Creta coi fanciulli

Fuggivano il terribile muggito

del selvatico figlio di Pasifae

e la curva struttura tortuosa

del labirinto. E ridestando, dea,

il suono della cetra, con un cerchio

di danze circondarono il tuo altare

e Teseo guidò il coro. Fin d'allora

i Cecropidi mandano ad Apollo,

perenne offerta della nave sacra,

gli attrezzi appartenenti a quella nave.

Ricca di altari, Asteria, e di preghiere,

qual navigante in viaggio per l'Egeo

ti sorpassò con la veloce nave?

Non soffia mai così gagliardo il vento,

né così in fretta è spinta la sua nave

dall'occorrenza, ma rapidamente

piegarono le vele e non partirono

senza aver fatto con le danze il giro

del grande altare tuo, su cui ricade

l'urto dei colpi e senza avere morso,

con le mani incrociate sulla schiena,

il tronco consacrato dell'olivo.

Questi giochi inventò la ninfa Delia

per far ridere Apollo da bambino.

Salute a te, felice focolare

delle isole, ad Apollo sia salute

e a Letò che con te divenne madre.

PER IL BAGNO DI PALLADE

Bagnatrici di Pallade, venite,

venite fuori tutte: udii nitrire

appena adesso le cavalle sacre

ed è pronta per muoversi la dea.

Correte, bionde figlie dei Pelasgi,

correte presto: le robuste braccia

mai bagnò Atena, prima di strigliare

i fianchi polverosi dei cavalli,

neppure quando giunse, riportando

dai figli sciagurati della terra

tutta sporca di polvere e di sangue

l'armatura, ma il collo dei cavalli

prima di tutto liberò dal carro

e lavò nelle fonti dell'Océano

le gocce di sudore e dalla bocca,

stretta sul morso, l'incrostata schiuma

tolse del tutto. Andate, donne Achee,.non portate profumi né alabastri

(odo il suono dei mozzi sotto l'asse)

non portate profumi né alabastri,

o bagnatrici, a Pallade (non ama

la mescolanza degli unguenti Atena),

né portate lo specchio: è sempre bello

il volto suo. Neppure quando il frigio

fece sull'Ida l'arbitro al giudizio,

volse lo sguardo al cerchio di oricalco

la grande dea né al diafano fluire

del Simoenta. Né si specchiò Era.

Cipride invece, preso il terso rame,

spesso rifece una seconda volta

la medesima ciocca della chioma.

Ella percorse centoventi giri

di corsa doppia, come sull'Eurota

le stelle Lacedemoni e da esperta

si unse, versati i naturali unguenti,

prodotto del suo albero, fanciulle,

e si coprì d'un colorito rosso,

come la rosa del mattino o il chicco

del melograno. Offritele anche adesso

solamente il virile olio di oliva

con cui Castore ed Eracle si spalmano.

E un pettine portate, tutto d'oro,

perché, lisciati i riccioli lucenti,

si pettini la chioma. Vieni, Atena.

Lo stuolo prediletto delle vergini

dei potenti Arestoridi è qui pronto.

Anche lo scudo di Diomede, Atena,

viene portato: tra gli antichi Argivi

Eumede, il sacerdote che ti è caro,

introdusse quest'uso e quando apprese

che un decreto di morte era sancito

dal popolo a suo danno, se ne andava,

con la tua sacra immagine, in esilio

e sul monte Creione, sul Creione

prese dimora e tra scoscese rupi,

che ora di Pallatidi hanno il nome,

ti depose, divina. Vieni, Atena,

rovina di città, dall'elmo d'oro,

che godi del fragore dei cavalli

e degli scudi. Portatrici d'acqua,

oggi non attingete; gente d'Argo,

bevete oggi alle fonti e non al fiume.

Oggi, serve alla fonte di Fisadia

portate i vasi o a quella di Amimone,

figlia di Danao. L'Inaco dai monti

discenderà, di pascoli coperti,

mischiando le sue acque all'oro e ai fiori,

a portare il bel bagno per Atena.

Attento a non vedere la regina,

non volendo, Pelasgo. Chi vedesse

colei che tiene in pugno la città,

Pallade, nuda, per l'estrema volta

volgerà gli occhi ad Argo. Ma tu vieni,

signora Atena: io narrerò qualcosa

a costoro, nel tempo che tu giungi:

questo racconto non è mio, ma di altri.

Una volta, fanciulle, c'era in Tebe

una ninfa, la madre di Tiresia,

che Atena molto più delle compagne

aveva cara e non lasciava mai.

Ma, sia che dirigesse i suoi cavalli

verso l'antica Tespie .......

o verso Aliarto, i campi dei Beoti

attraversando, o verso Coronea,

dove per lei c'è un tempio profumato

e lungo le correnti del Curalio

sono disposti altari, sul suo carro

più d'una volta l'invitò la dea

e i frivoli discorsi delle ninfe

e le figure delle danze in coro

le parevano privi di dolcezza

se non li conduceva Cariclò.

Molte lacrime pure l'aspettavano

anche se per Atena era l'amica

più cara al cuore. Un giorno all'Ippocrène

che bella scorre, sopra l'Elicona

si bagnavano, avendo sciolto i pepli

dai fermagli; sul monte era la pace

del mezzogiorno, entrambe si bagnavano,

volgeva il mezzogiorno e una gran pace

regnava su quel monte. Con i cani

Tiresia, solo, verso il luogo sacro

era diretto e aveva sulle guance

da poco, scura, l'ombra della barba.

In maniera indicibile assetato

giunse all'acqua corrente della fonte.

Sventurato! Le cose non concesse

vide senza volere. Gli rivolse,

benché adirata, Atena la parola:

"Qual demone alla via pericolosa,

figlio di Evèro, ti guidò, che gli occhi

non porterai più indietro?" Così disse

e notte colse gli occhi del ragazzo.

Muto rimase, ferme le ginocchia,

legate dal disastro e non riusciva

a mandar suono. Ma gridò la ninfa:

"Cosa hai fatto, signora, al figlio mio?

È questa l'amicizia delle dèe!

Hai tolto gli occhi al mio ragazzo! Figlio,

toccato dalla sorte, il seno e i fianchi

di Atena hai visti e non vedrai più il sole!

O me infelice, o monte, o Elicona;

dove non voglio mettere più piede,

molto in cambio di poco hai guadagnato:

qualche cerbiatto hai perso e qualche daino

e hai gli occhi del ragazzo." Tra le braccia

tenendo stretto il figlio suo, la madre

pativa, con un pianto disperato,

la sventura del flebile usignolo.

Atena ebbe pietà della compagna

e così le parlò: "Donna divina,

ritira interamente ciò che hai detto,

in preda all'ira: non per mio volere

tuo figlio è cieco. Certo per Atena

non è cosa piacevole strappare

gli occhi ai fanciulli. Ma il decreto è questo

delle leggi di Crono: chiunque scorga

uno degli immortali, quando il dio

non lo sceglie in persona, a grande prezzo

paghi il vederlo. Non si può mutare,

donna divina, ciò che è stato fatto,.poiché l'ha predisposto in questo modo

il filo delle Moire, nell'istante

in cui lo generasti. Ora ricevi,

figlio di Evèro, quanto ti è dovuto.

Ma la figlia di Cadmo quante offerte

un giorno brucerà, quante Aristeo!

E imploreranno di vedere cieco

l'unico figlio, il giovane Atteone.

E della grande Artemide compagno

di corsa egli sarà, ma né la corsa

né i tiri d'arco insieme sopra i monti

lo salveranno quando, non volendo,

vedrà il grazioso bagno della dea.

Le stesse cagne allora sbraneranno

il padrone d'un tempo e andrà la madre

a raccogliere le ossa di suo figlio

per tutti i boschi e dirà ben felice

e fortunata te che accogli il figlio

cieco dai monti. Non far più lamenti

per lui, compagna. Avrà da parte mia

numerosi altri doni, grazie a te.

Lo renderò profeta di gran fama,

tra gli uomini futuri, più di ogni altro

sarà dotato in modo prodigioso.

Conoscerà gli uccelli, quale voli

con esito propizio, quali invano,

quali con ali infauste. Egli ai Beoti

darà molti responsi, molti a Cadmo

ed ai grandi Labdàcidi in futuro.

Un gran bastone gli darò che i passi

gli guidi nella giusta direzione

e una vita che duri per molti anni.

E quando morirà, solo, tra i morti

andrà girando, ricco di saggezza,

onore per il grande Agesilao."

Disse e assentì col capo: ed è compiuto

ciò che Pallade approva con un cenno,

poiché ad Atena, sola tra le figlie,

tutti i segni del padre dette Zeus.

Non una madre partorì la dea,

ma la testa di Zeus, o bagnatrici,

e la testa di Zeus non dà un assenso

che non sia vero ..........

Proprio ora giunge Atena: voi, fanciulle,

a cui sta a cuore Argo, ricevete

con l'elogio la dea, con le preghiere

e con profonde grida. Salve, dea,

prenditi cura dell'Inachia Argo.

Salve a te che conduci via lontano

e di nuovo riporti i tuoi cavalli,

tutto il suolo dei Danai custodisci!

A DEMETRA

Quando passa il canestro, dite, o donne:

"Salve Demetra, molte volte salve,

generosa di cibo, ricca a staia."

Il canestro che passa contemplate

da terra e non guardatelo dal tetto,

né da un luogo elevato, estranei al rito,

né bambino né donna né fanciulla

con i capelli sciolti né chi sputa

a bocca asciutta, senza prender cibo.

Espero guardò fuori dalle nubi

(ma quando arriva?), Espero fu il solo

che convinse Demetra a dissetarsi,

quando correva sulle ignote tracce

della figlia rapita. In quale modo

ti portarono fino all'occidente

i tuoi passi, signora, fino ai neri,

fino alla terra dalle mele d'oro?

Non bevesti in quel tempo, non mangiasti

e non facesti il bagno e per tre volte

attraversasti il vortice d'argento

dell'Achelòo ed altrettante il corso

di ciascuno dei fiumi oltrepassasti,

che scorrono perenni, e per tre volte

presso il pozzo Callìcoro sedesti,

assetata, per terra, senza bere,

senza mangiare e senza fare il bagno.

No, non dobbiamo dire queste cose

che portarono lacrime a Deò,

piuttosto come diede usanze accette

alle città, piuttosto come il fusto

e i manipoli sacri delle spighe

tagliò per prima e portò dentro i buoi

a pestarli, nel tempo in cui apprendeva

l'arte buona Trittòlemo, piuttosto

(perché si tenga fuori l'arroganza)

come.......

Abitavano ancora la regione

sacra di Dotio, non la terra Cnidia

e un bel bosco ti offrirono i Pelasgi

d'alberi folto, per il quale a stento

una freccia passava. C'era il pino,

grandi olmi e peri e frutti dolci e belli,

e fuori dai rigagnoli sgorgava

un'acqua come l'ambra. Di quel luogo

era amante la dea, quanto di Eleusi,

come di Triopa, tanto quanto d'Enna.

Ma quando si adirò il demone buono

con i Triopidi, un perfido consiglio

prevalse nella mente di Erisíttone.

In fretta si avviò con venti servi,

tutti nel primo fiore, tutti grandi

come giganti e buoni a devastare

un'intera città, con i due attrezzi,

le asce e le scuri e corsero impudenti

al bosco di Demetra. C'era un pioppo,

albero grande, che toccava il cielo,

presso il quale venivano a scherzare

le ninfe a mezzogiorno. Il primo colpo

cadde su questo e un grido doloroso

mandava agli altri. Percepì Demetra

la sofferenza della pianta sacra

e disse piena d'ira: "Chi mi taglia

gli alberi belli?" Sùbito divenne

identica a Nicippe, nominata

sacerdotessa pubblica al suo culto

dalla città. Le bende prese in mano

e il papavero e aveva dalla spalla

una chiave pendente. Per calmare.quel malvagio impudente gli parlava:

"Figlio, chiunque tu sia che tagli gli alberi

consacrati agli dèi, fèrmati, figlio,

figlio molto diletto ai genitori,

fèrmati ed allontana i servi tuoi,

se non vuoi che ti mostri la sua ira

la dea Demetra, di cui ciò che è sacro

stai devastando." Le lanciò uno sguardo

più feroce di come una leonessa,

fresca di parto, guarda un cacciatore

sui monti Tmari, l'occhio più terribile

che esista, a quanto dicono, e rispose:

"Sta' indietro e bada che la mia gran scure

io non ti pianti in corpo. Con questi alberi

una solida casa voglio farmi,

dentro la quale sempre ai miei compagni

darò lieti banchetti in abbondanza."

Disse il ragazzo e Némesi si scrisse

la cattiva risposta. Ma Demetra,

in maniera indicibile adirata,

ridiventò la dea. Coi passi il suolo,

con la testa l'Olimpo raggiungeva.

Ed essi, quando videro la dea,

balzarono di colpo mezzi morti,

la scure abbandonando nelle querce.

Non si curò degli altri, che per forza

ubbidivano al cenno d'un padrone,

e al protervo signore si rivolse:

"Sì, sì, fatti la casa, cane, cane,

in cui darai i banchetti. Nel futuro

avrai banchetti senza interruzione."

Queste parole disse, suscitando

le pene di Erisíttone. All'istante

una fame terribile e selvaggia

gli mise addosso, ardente e vigorosa.

Ed egli, in preda a grave malattia,

cominciò a consumarsi. Sventurato,

più mangiava, più fame aveva ancora.

Preparavano in venti da mangiare

e il vino era da dodici versato.

Dioniso si unì all'ira di Demetra:

ciò che Dioniso anche Demetra offende.

I genitori, presi da vergogna,

per non mandarlo né alle cene a quota

né ai conviti, trovavano pretesti

d'ogni specie. Gli Ormenidi alle gare

di Atena Itonia vennero a invitarlo.

Li respinse la madre: "Non è in casa,

ieri appunto è partito per Crannone

per riscuotere i cento buoi d'un credito."

Polissò venne, madre di Attorione,

che preparava al giovane le nozze

ad invitare entrambi, Triopa e il figlio,

e la donna rispose a malincuore

tra le lagrime: "Triopa verrà certo,

ma Erisíttone, colto da un cinghiale,

sul monte Pindo dalle belle valli,

da nove giorni è a letto." Cosa mai

non inventasti per amor del figlio,

povera madre? Offriva uno un banchetto:

"Erisíttone è fuori di città."

Uno la sposa conduceva a nozze:

"Fu colpito Erisíttone da un disco",

o "Dal carro è caduto", o "Sta a contare

sopra l'Otris i greggi". E tutto il giorno

quello a mensa, nel fondo della casa,

mangiava all'infinito. E più mangiava

più il ventre gli balzava orribilmente.

Si versavano tutte le vivande

inutilmente, senza alcun piacere,

come nella voragine del mare

ed egli, come neve sul Mimante,

come al sole una bambola di cera,

e di più, si struggeva. Sventurato,

finché fu pelle e ossa sopra i nervi.

Era in pianto la madre, tristemente

le due sorelle, chi lo tenne al seno

e molte volte anche le dieci serve

mandavano lamenti e Triopa stesso,

si portava le mani al bianco capo,

invocando in tal modo Poseidone

che non l'udiva: "Falso genitore,

ecco qui tuo nipote, se davvero

nacqui da te e da Canace di Eolo,

e da me questo povero fanciullo

fu generato. Almeno le mie mani

l'avessero sepolto, fatto segno

della mira di Apollo. Ora mi siede

dinanzi agli occhi una malvagia fame:

o gli allontani questo orrendo male

o prendilo e nutriscilo tu stesso.

Le mie mense non hanno più risorse,

son deserti i recinti e sono vuote

le stalle dei quadrupedi. Più nulla

mandano indietro i cuochi, pure i muli

staccarono di sotto i grandi carri

ed egli divorò pure la mucca,

allevata per Estia dalla madre,

e il cavallo campione nelle gare

e il cavallo da guerra e "coda bianca",

il terrore dei piccoli animali.

Fino a quando restavano ricchezze

nella casa di Triopa, del malanno

solo le stanze interne erano a parte,

ma quando pure il fondo della casa

prosciugarono i denti, nei crocicchi

stette il figlio del re, seduto, a chiedere

avanzi e rimasugli delle mense.

Demetra, non mi possa essere amico

né stare al muro accanto chi ti è in odio:

è cattivo vicino un tuo nemico.

.......Vergini e madri, dite:

"Salve Demetra, molte volte salve,

generosa di cibo, ricca a staia".

E come sono quattro le cavalle

di chioma bianca che il canestro tírano,

così la grande dea; molto potente,

verrà portando bianca primavera

e bianca estate e inoltre inverno e autunno

e ci proteggerà da un anno all'altro.

E come scalzi e senza bende in capo

camminiamo in città, così per sempre

avremo in tutto illesi piedi e capo.

E come pieni d'oro i cesti portano.le portatrici, così avremo l'oro

in abbondanza. Le non iniziate

non oltre il Pritanèo della città,

le addette al rito seguano la dea,

se non hanno compiuto i sessanta anni,

fino alla fine. Ma per chi è pesante,

per chi le mani verso Ilitia tende,

per chi ha le doglie, per costoro basta

finché non hanno peso le ginocchia.

Darà loro Deò tutte le cose

in abbondanza e di poter venire

fino al suo tempio. Salve, dea, conserva

questa città in concordia e in opulenza.

Porta tutti i prodotti della terra,

ai buoi da' nutrimento, porta i frutti,

porta la spiga, da' la mietitura,

anche la pace nutri, perché mieta,

colui che arò. Propizia a me dimòstrati

tre volte nelle suppliche invocata,

grandemente potente tra le dèe.